INTERVISTA AD AZZURRA D’AGOSTINO

Mar 16, 2021 | Letteratura, Visione

Azzurra D’Agostino ha pubblicato varie raccolte di poesie, albi per bambini (pubblicati da Fatatrac e Electa Mondadori), curato antologie e traduzioni. Scrive per il teatro e collabora con artisti visivi e musicisti. Ama molto condividere la scrittura in percorsi laboratoriali con bambini e adulti. Nel 2021 è uscito il suo primo romanzo per ragazzi, “Il giardino dei desideri”, per DeA Planeta Libri. È presidente dell’Associazione SassiScritti APS. Abbiamo già parlato di SassiScritti e del rapporto tra la poesia di Azzurra e il territorio dell’Appenino in questo post.

Hai dedicato molte delle tue poesie ai territori dell’Appenino tosco-emiliano, affrontando direttamente la questione dello spopolamento. Come mai ti interessa questo tema? Come si trasformano – culturalmente oltre che materialmente – i piccoli insediamenti che negli ultimi decenni hanno visto i loro abitanti assottigliarsi sempre più, a causa dell’emigrazione e della depressione economica?

Seamus Heaney ha scritto «perché gli esseri umani creino le condizioni più luminose in cui vivere, è essenziale che la visione della realtà offerta dalla poesia sia trasformativa». Penso che il poeta, in modo non sempre conscio, scriva anche per trasformare. Non solo l’esistente, ma soprattutto l’immagine che egli nel quotidiano ha di questo esistente. Sempre citando Heaney: «l’occhio della scrittura è tutto concentrato su quel che ha davanti, ma nello stesso tempo consente a questo davanti di accedere completamente a ciò che sta dietro l’occhio». L’Appennino mi interessa non solo perché ce l’ho davanti agli occhi, ma anche perché ce l’ho dietro: è il luogo dove sono nata, dove combatto i miei fantasmi, che sono altrettanto e forse più potenti di quello che si dice reale. Quello che accade nella poesia non è esattamente quello che accade nel mondo, forse ne è sua prefigurazione, o ombra, scarto, scaglia lucente del possibile. Ciò che mi pare di percepire a livello di modificazione culturale nei piccoli insediamenti è a tratti una frustrata gestione del proprio spazio-tempo, condizionata da ciò che accade a livello globale. Ci sono delle eccezioni, naturalmente, fatte sempre dalle persone: se c’è un buon amministratore, anche la comunità che gli si fa attorno è più salda.

Molto del tuo lavoro di animatrice culturale e di scrittrice ruota attorno al paesaggio appenninico. Come definiresti questi luoghi? Come esprimere a parole le loro peculiarità “geografiche”?

Oltre ai Canti di un luogo abbandonato e a varie poesie sparse nelle mie raccolte, ho cercato le parole per dire l’Appennino in vari modi. L’ultimo, a cui sono molto legata e che prosegue in un secondo romanzo a cui mi sto dedicando adesso, è una storia per ragazzi. Ho desiderato rivolgermi a loro, ai ragazzini in età puberale – o preadolescenti, come si dice adesso – per cantare per loro, con loro, una terra nuova, trasfigurarla in un paesaggio magico. Rendere concretamente dei luoghi esistenti (per esempio il romanzo Il giardino dei desideri è ambientato nella Rocchetta Mattei di Grizzana Morandi) spazi dell’immaginario. I boschi dell’Appennino come le ruvide buie stupefacenti foreste dei Grimm, ovvero quello che per me sono veramente. Dal bosco ceduo a più bassa quota, fatto di fruscii, presenze, piante curative, agli alti fusti delle zone più alte. Attraversare le pinete di pini montani per arrivare al Corno alle Scale, ad esempio, sul tappeto di aghi che rendono la luce rosata, fa percepire l’altro mondo, non so se quello delle fiabe o quello della grazia, ma di certo è una porta per l’altrove incardinata a fondo in questo, capace di rivelarcelo.

Il nostro progetto si basa sulla sinergia tra lo sviluppo del turismo lento (come il cicloturismo o quello a piedi, su sentieri escursionistici e cammini religiosi) e l’inclusione sociale. Credi sia possibile un rilancio del turismo nell’area dell’Appennino tosco-emiliano? Se sì, secondo quali linee di sviluppo? Quali criticità intravedi?

Per molti anni ogni progetto proposto in ambito culturale doveva avere – per ottenere un minimo di sostegno economico dalle istituzioni – la parola turismo tra le sue ragioni d’essere. Questa tendenza procede ancora oggi, in parte svilendo, a mio avviso, la funzione stessa dell’arte – se intesa quale ancella dell’attrattività turistica. Io stessa ho sostenuto questa logica, dicendo che demonizzare il turismo era un retaggio purista che non aiutava nessuno. Mi sto allontanando però sempre più da questa idea. Certo, occorre tenere presente l’evoluzione anche delle abitudini delle persone, dei modi di fruire delle opportunità offerte da un territorio, di gestire insomma il proprio tempo libero. Ma tenere presente non significa per forza condividere tutto. Credo ci sia molto lavoro da fare, non solo in termini concreti ma anche e soprattutto di visione e relazione sia tra le persone che con l’ambiente. Quello che state iniziando a tracciare e indagare potrebbe forse essere una dimensione interessante, ovvero mettere in relazione un’idea non propriamente turistica ma di esplorazione itinerante, che sappia e desideri considerare l’effettiva natura delle aree attraversate (natura sia delle congreghe umane che del paesaggio). Coinvolgere gli artisti in fase di progettazione mi sembrerebbe importante, e importante soprattutto sarebbe mantenere la divisione dei ruoli. Attualmente, per una serie di politiche che rendono la cultura ancella del turismo, ho visto molti artisti diventare delle specie di promotori culturali e turistici, snaturando in parte la loro azione libera e senza scopo utilitaristico, al fine di rispondere a domande mal poste. Il grande evento ha dimostrato di lasciare soprattutto scorie e non tracce. Vediamo se mettendo in comunione figure e competenze diverse si possa pensare a un ‘piccolo’ che permetta maggiore verità.

A tal proposito, mi sono trovata piuttosto d’accordo con un articolo uscito il 9 febbraio scorso in merito alla proclamazione di Procida ‘Capitale 2022’ della cultura. In particolare, con queste parole: «Ma la cosa più triste è che il mondo della cultura, compreso il popolo dei working poor che ha ormai introiettato la propria condizione precaria, si è ridotto ad assecondare la logica di questo sistema, contribuendo di buona lena ad alimentare le narrazioni fasulle della valorizzazione equilibrata, del turismo di qualità con toni pittoreschi e nostalgici, nella speranza di rimediare qualche spicciolo». L’articolo si trova quiOccorre insomma fare molta attenzione quando si propongono progetti e si pensa ai luoghi.

La mia posizione tra arte e turismo potrebbe essere riassunta con una domanda: Elsa Morante ha scritto L’isola di Arturo pensando alla valorizzazione turistica di Procida?

Ecco, allora evitiamo di piegare quell’immaginario per altro (e forse opposto) scopo.

Nei Canti di un luogo abbandonato dai voce ai membri della civiltà rurale che oltre un secolo fa abitava i piccoli borghi dell’Appennino. I versi tracciano l’affresco della vita contadina con passione e partecipazione, ma evitando il rischio di una visione idealizzata o nostalgica. Sei infatti ben consapevole delle difficoltà e delle durezze affrontate da chi viveva in quei luoghi. Il progetto TWIN punta molto sulla valorizzazione delle comunità locali, ma ci siamo resi conto che esistono grosse differenze nella percezione dei luoghi e delle loro potenzialità: ciò che a occhi esterni appare come un valore (contatto con la natura, dispersione degli insediamenti, tradizioni locali, ecc.) può invece essere percepito dai locali come una zavorra o una condanna. È possibile aiutare gli abitanti di aree depresse a pensare ai loro territori con più fiducia e meno disincanto?

Non credo che gli abitanti di queste zone, per lo meno dell’Appennino che conosco direttamente (diciamo tutta la Valle del Reno, con sconfinamenti verso il Corno alle Scale, l’area dei laghi di Suviana e Brasimone, parte della montagna pistoiese) percepiscano questi aspetti come una zavorra. Tale è certamente la carenza di servizi, infrastrutture, economia, non penso inerisca l’identità o le tradizioni. Per un lungo lavoro a contatto con molte comunità che viene svolto da quindici anni dall’associazione di cui sono presidente, SassiScritti, abbiamo avuto modo di conoscere moltissime persone e realtà aggregate: dalle amministrazioni locali, alle associazioni, alla proloco, alle parrocchie, ai circoli – quello che posso dire di aver percepito è un orgoglio saldo, al limite del campanilismo. Questo cambia se ci rivolgiamo alle giovani generazioni: i ragazzi, soprattutto gli adolescenti, sono quelli che mi pare soffrano di più l’isolamento, la mancanza di opportunità e di scambio. Li capisco: io stessa, adolescente, soffrivo a vivere qui. Non è solo questione di irrequietezza giovanile, è proprio un’assenza di prospettiva e di ascolto che credo sia oggettiva. Ovviamente, in queste zone come in molte parti d’Italia, l’età media della popolazione è molto elevata e quindi anche l’attenzione verso i pochi giovani (= pochi voti, per gli amministratori) è delegata soprattutto alla scuola. Mi sembra che non basti, sebbene percepisca un atteggiamento e una progettualità dentro gli istituti scolastici encomiabile. A volte è davvero l’unico modo per fruire di cultura e arte, avere scambi, ragionare su prospettive più ampie. Ma se non hai un teatro nel tuo paese, e non c’è un treno che ti porta in quello più vicino, come puoi imparare ad amare il teatro? Questo solo per fare un esempio.
Ci sono alcune persone poi che si stanno dedicando a dei progetti legati direttamente all’ambiente, al legame con l’agricoltura e l’accoglienza fatte in modo consapevole, al mantenimento dei boschi e alla costruzione di strutture ricettive orientate secondo un’ottica più internazionale e contemporanea (credo si chiami Glamping). Ma è una tendenza piuttosto recente, quantomeno qui, e quindi è presto per dire a cosa porterà.

Credi che la letteratura e più in generale il lavoro culturale possano aiutare le comunità locali a combattere lo spopolamento? Come è possibile combinare salvaguardia delle tradizioni – anche linguistiche – e necessità dell’innovazione? Si tratta solo di sviluppare iniziative “dal basso”, oppure credi sarebbe auspicabile anche una diversa gestione delle risorse, magari a livello regionale o nazionale?

Non ho una ricetta, tanto che io stessa sperimento strade sempre diverse. A livello di azioni da cittadina, quindi nell’impegno collettivo con altri tramite SassiScritti, posso dire che sarebbe necessario un rinnovamento delle modalità della gestione delle risorse, e anche l’attuarsi di distinguo all’interno delle varie realtà che compongono quantomeno, diciamo così, il terzo settore. Non per differenze di valore, ma sicuramente per diversità oggettive che stanno dietro la progettualità di contesti molto diversi. Oggi i magri fondi esistenti sono contesi parimenti tra proloco, associazioni sportive e/o parrocchiali, associazioni di volontariato e associazioni culturali come la nostra. Non è tutto uguale. Ma spesso viene considerato così, e questo costringe continuamente a giustificare il proprio operato, a ricominciare ogni volta da capo a raccontare chi si è, cosa si fa, e perché. Chiunque esca da quei tavoli si sente frustrato, in un verso o nell’altro incompreso. Ripeto, ci sono delle eccezioni, ma sono appunto tali. Il peso della peggiore politica in tutto questo è molto invadente e per chi, come noi, non è un politico, alcune dinamiche risultano incomprensibili.

Parlando come persona che scrive, direi che la letteratura può combattere lo spopolamento tanto quanto può migliorare il mondo. Cioè all’apparenza per niente. C’è un eppure, ed è quell’eppure che rende conto della poesia, e che si attua come trasformativo. Ovvero parlando d’altro. Facendo propria l’esortazione di Fortini in Traducendo Brecht («La poesia | non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi»). Il mio scrivere in dialetto, ad esempio, un dialetto ormai morto, che non parla praticamente più nessuno, è una pratica di utopia che mi insegna ad attraversare il linguaggio e il pensiero in modo inedito per me, a lasciare delle tracce che sono esplorazione di libertà, senza altro fine che se stesse. Non scrivo dialetto per preservare una tradizione linguistica che di fatto è già estinta. Se mi accade di farlo, è per un fatto puramente spirituale e linguistico. Penso a Thomas Bernhard che non ha fatto che scrivere male di Salisburgo. Eppure, dai suoi libri esce una città intera, un’atmosfera, un altro mondo, e attraverso quel mondo distorto e dolente noi vediamo il nostro improvvisamente più luminoso e vero.

Quindi, a tuo modo di vedere, quali sono le leve sulle quali pensi si possa immaginare un futuro diverso per questi territori?

Non so come immaginare un futuro diverso.  Non è banale intanto provare a immaginarsi quantomeno un futuro. In questo futuro, mi piacerebbe che i castagneti abbandonati avessero di nuovo qualcuno che con passione e sapienza li custodisce e li governa. Mi piacerebbe che i miei amici apicoltori, coltivatori, allevatori e le loro famiglie potessero programmare il loro lavoro senza ‘navigare a vista’, senza sentirsi soli. Che ci fosse maggiore unione tra i diversi Comuni e le varie realtà aggregate, nel riconoscimento delle specificità proprie di ciascuno. Che ci fosse un pensiero politico e amministrativo sul lungo termine in grado di comprendere con intelligenza e profondità i vari livelli di difficoltà che le persone si trovano ad affrontare (dalla chiusura dei centri nascita in ospedale, alle carenze infrastrutturali, a molto altro). A volte mi dico che per essere davvero attenti all’ambiente sarebbe già qualcosa recuperare la sapienza pratica dei nostri nonni. Molto sta nel capire come non fare di questo un’operazione nostalgica o archeologica.

L’Appennino delle mie zone è tante cose: il silenzio nel quale Morandi dipinse i suoi fienili, un borgo rurale (Grizzana Morandi, appunto) che non era all’epoca particolare meta di visitatori. E al contempo è anche Porretta Terme, una cittadina nella quale per molto tempo venivano a vivere per lunghi periodi estivi centinaia di ‘villeggianti’ delle ricche famiglie bene bolognesi e fiorentine. Oggi i Fienili di Morandi sono un luogo ristrutturato di grande fascino, dove vengono organizzate mostre e convegni, mentre i meravigliosi palazzi liberty delle Terme Alte di Porretta sono pericolanti (in alcuni palazzi il tetto è già crollato). E al contempo Grizzana è per sempre tradotta nelle opere immortali di Giorgio Morandi, così come una Porretta che forse non esiste è stata in parte ritratta in opere cinematografiche (Pupi Avati, Cristina Comencini). L’Appennino reale è altra cosa rispetto a quello trasfigurato nell’arte, nei libri e nelle canzoni di Francesco Guccini, ad esempio, o nei quadri di Gino Covili (nato sull’Appennino modenese) – ma questo specchio che è l’arte può contribuire a fare la storia di un luogo, persino a cambiarla. A dargli una possibilità. Sono d’accordo con l’antropologo e scrittore Matteo Meschiari quando dice che è l’immaginazione la via principale per darci delle alternative, per sopravvivere al collasso.

Come leggiamo i resti? Che ce ne facciamo del passato, fino a che profondità è nel nostro presente? Come viviamo le trasformazioni del nostro mondo, come esse a loro volta ci trasformano: forse questo è un punto importante per agire con consapevolezza e senza forzature nella prospettiva del futuro, un futuro nel quale piante, animali, fiumi e laghi siano finalmente presi in considerazione non solamente come una risorsa da sfruttare.

FotoFabio Sebastiano.